Un progetto triennale, il vostro (2012_2014) indica in
OVULO, GLORIOSO e I DUE PIANI, per un’indagine approfondita sui linguaggi della
creazione contemporanea. Ci vuole audacia a guardare così lontano di questi
tempi…
Le date della diciassettesima edizione della rassegna
sono quelle comprese fra l’1 e il 9 dicembre 2012 con un campo d’indagine che
si orienterà sulla lettura performativa dell’identità ovulare –
macrocellulare del linguaggio artistico contemporaneo. A cosa alludete
nello specifico con questo concetto?
macrocellulare del linguaggio artistico contemporaneo. A cosa alludete
nello specifico con questo concetto?
OvulO è un nome
triadico liberamente tratto da “ingestioni” provenienti dal filosofo la cui
scrittura ha una forte assonanza con la nostra modalità di creazione: Gilles
Deleuze. A Deleuze abbiamo sottratto tre elementi stimolanti, tre suggestioni
concettuali. Non è quindi meccanicamente diretta la ragione per la quale il
Festival è interpretato da artiste femminili. In primo piano c’è la necessità di
dare evidenza ad un linguaggio ovulare, cioè sostanziare un progetto artistico
attraverso opere “nutritive”, compositivamente definite.
Se il “Glorioso”
si contrappone al linguaggio organico del corpo concreto, ne “I due
piani” si incontreranno, senza contaminarsi e subordinarsi, due piani
linguistici schizofrenicamente tesi verso l’unità.
Il discorso
attorno all’ovulo è maturato nel tempo, allo stesso modo in cui maturano i
significati che comportano la necessità dell’azione. Più che un festival “al
femminile” preferirei dire un festival di artiste, perché chi come noi pratica
da lungo tempo un’indagine estetica profonda, non tollera più mediazioni e
medietà e spinge sempre più fino in fondo il proprio acceleratore interiore,
emotivo ed intellettuale. Non ci interessa restituire uno specchio più o
meno fedele dei linguaggi performativi contemporanei ma, come dice Deleuze, usare il coltello, ossia penetrare con
lama tagliente il mondo. Non è una visione ideologica e politica quella di
scegliere un universo artistico femminile ma una volontà di
sbilanciamento, di estremizzazione della differenza. Oggi, a distanza di un
anno dal suo concepimento, questo contenuto si è fatto molto forte anche dal
punto di vista della “questione sociale” peraltro andando quasi a coincidere
con la giornata contro la violenza sulle donne. Penso non sia sufficiente agire
sul piano politico della legislazione, ma che l’umano debba esaltare la propria
debolezza attraverso il potere della lingua. Il linguaggio è potere e deve
esserlo per i disabili, per le donne, per i bambini, per tutti coloro a cui è
stato negato: non è sufficiente averlo per diritto - certo - ma bisogna
conquistare il dovere della lingua. Fare un’esperienza intellettuale significa
inanellare queste due polarità. Il nostro lavoro, sia nella progettazione del
festival come nel nostro percorso artistico, è un procedere per innesti; le
drammaturgie anticipano una visione in una sorta di futuro circolare in cui
quello che accadrà è già accaduto. La visione rende necessaria l’azione.
Le condizioni
esterne oggi sono molto difficili: tutto impedisce di proseguire un percorso
come questo fatto di avvenimenti interiori e non di eventi. E quindi, sì, è
audace il pensare in un esistere lungo.
Magari poi lo si pensa, basta però che non ci tolgano almeno la possibilità di
farlo.
Le ispirazioni tematiche che dichiarate, derivano da
suggestioni filosofiche tratte dall’opera di Gilles Deleuze. Perché Deleuze?
Quale contributo specifico ritenete abbia dato alla semiotica con riguardo alle
arti sceniche, che ve lo fa preferire ad altri studiosi ugualmente attenti a
quanto oggetto della vostra indagine (mi vengono in mente sia Deridda che,
ancor più Merleau-Ponty)?
Il teatro filosofico è fisica di pensiero, visualizzazione dell’anomalia e della variazione. La scrittura di Deleuze è disorientante, labirintica, in una rotazione, spirale di sensi. Le prime letture formano e fondano la nostra identità poetica, segnano il passaggio dall'adolescenza alla maturità, diventando così parte della nostra biografia.
Il Festival Natura Dèi Teatri si svolge a Parma negli
spazi post-industriali di Lenz Teatro. Ritenete importante questa
caratteristica per così dire site specific?
E’ stato
importante alla fine degli anni ’80 quando abbiamo cercato uno spazio che
corrispondesse alla nostra identità, al nostro concetto di bellezza. Questo è
il nostro museo, la nostra pinacoteca, la nostra Wunderkammer in cui si continua a riscrivere la lingua del teatro,
è un vuoto e un pieno, è silenzio e rumore. La fabbrica è un luogo non anonimo,
non neutro: il ‘900 ha costruito fabbriche al posto delle chiese e le fabbriche
dismesse sono le nuove cattedrali del ventunesimo secolo. Dopo oltre 20 anni di
attività, visto che le cose non sono mai definitive, il nostro spazio è ancora
in balia di possibili mutamenti negativi, cambiamento di destinazione ad uso
commerciale. E questa possibilità - drammatica - rafforza ancora di più la sua
funzione di conflittuale, e la sua occupazione psico-interiore è ulteriormente
mutata. Lo fabbrica è un luogo non rassicurante, non domestico, ma la sua cifra
architettonica è quella stilisticamente più in sintonia con il nostro
linguaggio scenico, per dimensioni, volumi, per il rapporto sospeso che si ha
con lo spettatore. In questa edizione del Festival il pubblico è a metà, non ha
un suo posto predefinito, abita l’intercapedine, sta poeticamente in mezzo, nel
cuore dell'impulso.
La Redazione ND'T
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