venerdì 7 dicembre 2012

Una voce che penetra nell’anima: CARLA BOZULICH


Esperienza indimenticabile è ascoltare Carla Bozulich nel suo mondo dark gothic, ricco di fantasmi jazz, spiriti soul, lamenti blues e atmosfere da rock underground anni ’80. Live dall’alto tasso emotivo in cui si rompono i confini tra artista e pubblico in nome di un irresistibile moto di trasformazione interiore.
Una musica a brandelli, intrisa di nervosismo. Una voce ricca di contaminazioni, di modulazioni, che passa da toni sguaiati e sanguinosi ad un seducente rilassamento o completa stasi.
Energia ed estrema tensione drammatica che cresce esponenzialmente senza mai trovare sfogo, fino all’implosione.
Voce pungente che penetra fino all’anima, che conduce ad una totale complicità ed empatia tra spettatore e performer, dove il dolore psicologico dell’artista viene rovesciato sull’ascoltatore.
Sonorità ricche di tensione ma costruite e create da pochi elementi, talvolta con monoliticità armonica (uno o due accordi).
Ossessività musicale che trova riscontro nei sentimenti apocalittici delle figure umane evocate, canoni che sembravano superati ma che con Carla Bozulich acquistano nuova vitalità e ritrovano la loro originaria forza d’urto.

Nata a New York City nel 1965 Carla Bozulich, cantante, chitarrista e video maker, gode di una sterminata lista di collaborazioni e produzioni. Partecipa all’attività musicale newyorchese suonando in gruppi come The Neon Veins e The Invisible Chains. Nel 1986 fonda Ethyl Meatplow, mix provocatorio dal sapore industrial.
Nel 1993 fonda The Geraldine Fibbers con cui realizza due album, il secondo, “Butch”, con il contributo creativo di Nels Cline. Proprio con Nels Cline crea Scarnella, un progetto aperto, sperimentale e spesso solo strumentale.
L’artista statunitense nel 2006 pubblica l’album “Evangelista” su Constellation Records, collettivo/etichetta di culto di Montreal, seguito da “Hello, Voyager” nel 2008 e “Prince of Truth” nel 2009.
Questi lavori sono valsi alla Bozulich copertine di riviste specializzate (The Wire, Blow Up) e l’acclamazione unanime di critica e pubblico. Ha partecipato al Lollapalooza e per due volte è stata invitata all’ATP (All Tomorrows Parties) .
Nel 2005 accompagnata dalla London Sinfonietta, ha interpretato “The Ballad of the Lily of Hell” (Brecht/Weill) al Meltdown festival di Londra, edizione curata da Patti Smith.
Nell’agosto del 2009 Carla ha suonato al fianco di Marianne Faithfull e Marc Ribot all’interno del RUHRtriennale a Dusseldorf.
                                                                        Irina Pinelli

Cellule melodiche ed ossessive: GIORGIA ANGIULI


Per vario tempo Giorgia Angiuli ha sfiorato le corde di chitarre molto aggressive, più new metal che death. Dopo anni di chitarra classica in Conservatorio si ritrova ad assistere a concerti che si distaccano apparentemente dal suo gusto musicale, come quelli dei Sepultura e dei Rage Against The Machine.
Rientrata in Italia lascia il Conservatorio e acquista una nuova chitarra  elettrica. “Mi sentivo così a mio agio tra delay e distorsori taglienti e dunque, contro la volontà di mamma e papà, iniziai a suonare con varie band."

We Love è il nuovo progetto che Giorgia Angiuli (Metùo) e Piero Fragola (Werk Design) presenteranno a Lenz Teatro. “Ci siamo incontrati casualmente in un festival di musica elettronica e arti visive dove presentavamo i nostri singoli progetti. L'interesse e l'amore comune per lo studio e la sinergia delle arti ci ha spinto alla creazione di We love”.
Le loro sonorità electro-pop hanno conquistato Ellen Allien, cantante, musicista e produttrice discografica tedesca, fondatrice dell'etichetta discografica BPitch.
Si tratta di un progetto multimediale (suoni-immagini) che prende forma e vita nel dicembre 2006 e gravita attorno alle energie di varie persone. Si posa sulla presenza costante di Giorgia Angiuli, a laptop, chitarra, giocattoli, elettronica, voce, odori.
Un’esperienza in cui i suoni annebbiano le tempie, le dita rincorrono universi tattili e sonori, le immagini conducono in mondi surreali e febbricitanti.
I loro live sono pensati come un'esperienza a trecentosessanta grandi tra musica, design, video e moda, per creare un'atmosfera più avvolgente possibile.
Le parole che accompagnano i loro brani sono immagini più che veri testi. Le voci sembrano strumenti, le parole sono volutamente cellule melodiche e ossessive. Il tutto nasce dal desiderio di raccontare visioni legate a delle storie, sensazioni esasperate, allucinazioni.

Sul palco indossiamo armature assumendo le sembianze di due "soldiers of love": due volti dietro una visiera, due corpi dentro un'armatura bianca e nera. I visual sono proiettati sui nostri corpi in movimento e gli strumenti che usiamo dal vivo sono: voci, mixer, laptop, chiatarra, synth, controller, theremin”. [intervista di Antonio Di Gioia a Giorgia Angiuli e Piero Fragola, www.electronique.it]
                                                              Marianna Saggese

“WOO”, un Io incantato che precipita: MONICA BIANCHI


“E non è per niente facile, non farsi notare. Essere sconosciuto, anche alla propria portinaia e ai propri vicini. Se è tanto difficile essere “come” tutti, è perché riguarda il divenire. È necessaria molta ascesi, molta sobrietà e involuzione creatrice: un’eleganza inglese, un tessuto inglese, confondersi con i muri, eliminare il troppo visto, il troppo da vedere”.
Gilles Deleuze

La storia degli uomini è fatta di nomi che emergono e i più non lasciano traccia. Dedicato a tutti coloro che non hanno un nome, WOO è un Io incantato che precipita, di delirio in delirio, in un panorama dal tempo incoerente.
WOO è il brusio indistinto del tempo in cui siamo immersi e che, scorrendo, porta con sé la memoria del nostro passaggio. La paura degli uomini di non essere nessuno si priva di significato e diviene l’arma per sfuggire ai ruoli e al giudizio, pur rispondendo della propria posizione nel mondo.
WOO è un viaggio attraverso quattro movimenti, che percorrono trasversalmente parola, danza, musica e immagine:
-       Programma
-       Impercettibile
-       Buio
-       Panorama.
Monica Bianchi è come l’erba, che cresce in mezzo, tra le cose.
Vuol’essere impercettibile, esprimere una potenza non personale, superiore all’individualità, fuori dal corpo programmato. L’artista “fugge” da noi spettatori, forse con noi; ci travolge nel suo “cercare un nome” senza trovarlo, sfiorando il delirio.
“Delirare significa esattamente uscire dal solco. Una fuga è una specie di delirio. Significa produrre del reale, creare vita, trovare un’arma.”
Nella sua ricerca, Monica Bianchi è affiancata dal musicista Giorgio Vecchi, che accompagna i quattro movimenti della performer con suggestioni sonore e visive sconfinanti

Monica Bianchi è stata protagonista di diverse opere di Lenz Rifrazioni.
Da sempre alterna l’attività di danzatrice a quella di attrice.
Nel 2004 forma il trio Ninachaos.
Giorgio Vecchi, musicista nei Culpable, dagli anni ’70 realizza colonne sonore per cortometraggi, occupandosi poi di produzione e regia di documentari, iniziative editoriali e comunicazione.
                                                                          Laura Panizza

Intervista a Maria Federica Maestri, direzione artistica Natura Dèi Teatri e Lenz Rifrazioni


Un progetto triennale, il vostro (2012_2014) indica in OVULO, GLORIOSO e I DUE PIANI, per un’indagine approfondita sui linguaggi della creazione contemporanea. Ci vuole audacia a guardare così lontano di questi tempi…

Le date della diciassettesima edizione della rassegna sono quelle comprese fra l’1 e il 9 dicembre 2012 con un campo d’indagine che si orienterà sulla lettura performativa dell’identità ovulare –
macrocellulare del linguaggio artistico contemporaneo. A cosa alludete
nello specifico con questo concetto?

OvulO è un nome triadico liberamente tratto da “ingestioni” provenienti dal filosofo la cui scrittura ha una forte assonanza con la nostra modalità di creazione: Gilles Deleuze. A Deleuze abbiamo sottratto tre elementi stimolanti, tre suggestioni concettuali. Non è quindi meccanicamente diretta la ragione per la quale il Festival è interpretato da artiste femminili. In primo piano c’è la necessità di dare evidenza ad un linguaggio ovulare, cioè sostanziare un progetto artistico attraverso opere “nutritive”, compositivamente definite.
Se il “Glorioso” si contrappone al linguaggio organico del corpo concreto, ne “I due piani”  si incontreranno, senza contaminarsi e subordinarsi, due piani linguistici schizofrenicamente tesi verso l’unità.
Il discorso attorno all’ovulo è maturato nel tempo, allo stesso modo in cui maturano i significati che comportano la necessità dell’azione. Più che un festival “al femminile” preferirei dire un festival di artiste, perché chi come noi pratica da lungo tempo un’indagine estetica profonda, non tollera più mediazioni e medietà e spinge sempre più fino in fondo il proprio acceleratore interiore, emotivo ed intellettuale.  Non ci interessa restituire uno specchio più o meno fedele dei linguaggi performativi contemporanei ma, come dice Deleuze, usare il coltello, ossia penetrare con lama tagliente il mondo. Non è una visione ideologica e politica quella di scegliere un universo artistico femminile ma una volontà di sbilanciamento, di estremizzazione della differenza. Oggi, a distanza di un anno dal suo concepimento, questo contenuto si è fatto molto forte anche dal punto di vista della “questione sociale” peraltro andando quasi a coincidere con la giornata contro la violenza sulle donne. Penso non sia sufficiente agire sul piano politico della legislazione, ma che l’umano debba esaltare la propria debolezza attraverso il potere della lingua. Il linguaggio è potere e deve esserlo per i disabili, per le donne, per i bambini, per tutti coloro a cui è stato negato: non è sufficiente averlo per diritto - certo - ma bisogna conquistare il dovere della lingua. Fare un’esperienza intellettuale significa inanellare queste due polarità. Il nostro lavoro, sia nella progettazione del festival come nel nostro percorso artistico, è un procedere per innesti; le drammaturgie anticipano una visione in una sorta di futuro circolare in cui quello che accadrà è già accaduto. La visione rende necessaria l’azione.
Le condizioni esterne oggi sono molto difficili: tutto impedisce di proseguire un percorso come questo fatto di avvenimenti interiori e non di eventi. E quindi, sì, è audace il pensare in un esistere lungo. Magari poi lo si pensa, basta però che non ci tolgano almeno la possibilità di farlo.

Le ispirazioni tematiche che dichiarate, derivano da suggestioni filosofiche tratte dall’opera di Gilles Deleuze. Perché Deleuze? Quale contributo specifico ritenete abbia dato alla semiotica con riguardo alle arti sceniche, che ve lo fa preferire ad altri studiosi ugualmente attenti a quanto oggetto della vostra indagine (mi vengono in mente sia Deridda che, ancor più Merleau-Ponty)?

Il teatro filosofico è fisica di pensiero, visualizzazione dell’anomalia e della variazione. La scrittura di Deleuze è disorientante, labirintica, in una rotazione, spirale di sensi. Le prime letture formano e fondano la nostra identità poetica, segnano il passaggio dall'adolescenza alla maturità, diventando così parte della nostra biografia.

Il Festival Natura Dèi Teatri si svolge a Parma negli spazi post-industriali di Lenz Teatro. Ritenete importante questa caratteristica per così dire site specific?

E’ stato importante alla fine degli anni ’80 quando abbiamo cercato uno spazio che corrispondesse alla nostra identità, al nostro concetto di bellezza. Questo è il nostro museo, la nostra pinacoteca, la nostra Wunderkammer in cui si continua a riscrivere la lingua del teatro, è un vuoto e un pieno, è silenzio e rumore. La fabbrica è un luogo non anonimo, non neutro: il ‘900 ha costruito fabbriche al posto delle chiese e le fabbriche dismesse sono le nuove cattedrali del ventunesimo secolo. Dopo oltre 20 anni di attività, visto che le cose non sono mai definitive, il nostro spazio è ancora in balia di possibili mutamenti negativi, cambiamento di destinazione ad uso commerciale. E questa possibilità - drammatica - rafforza ancora di più la sua funzione di conflittuale, e la sua occupazione psico-interiore è ulteriormente mutata. Lo fabbrica è un luogo non rassicurante, non domestico, ma la sua cifra architettonica è quella stilisticamente più in sintonia con il nostro linguaggio scenico, per dimensioni, volumi, per il rapporto sospeso che si ha con lo spettatore. In questa edizione del Festival il pubblico è a metà, non ha un suo posto predefinito, abita l’intercapedine, sta poeticamente in mezzo, nel cuore dell'impulso.
                                                           La Redazione ND'T

Corpo danzante tra Deleuze e Dubuffet: VERA MANTERO


Un corpo che danza, che si libera, che si avvicina al suolo.
E’ Vera Mantero che in "What can be said about Pierre" porta in scena Gilles Deleuze.
Un tempo manipolato, un ritmo insistente che spinge verso il pavimento, che ricerca la terra ed un corpo imprigionato, che si dimena, che corre da tutti i lati.
Il movimento e la danza diventano per Vera il canale più puro per conoscere, scoprire e capire il mondo.
Un lavoro, il suo, che acquista la forma di una lotta continua contro la banalità performativa fondendo filosofia ed intuizione, verbale e non verbale, razionale ed irrazionale.

Nel 2006 durante la Giornata Mondiale della Danza ho presentato una piccola improvvisazione al suono della voce di Gilles Deleuze che tiene una lezione su Spinoza e il suo concetto dei tre tipi di conoscenza possibili per gli esseri umani (il discorso in questione si concentra sul primo tipo di conoscenza, quella più elementare, quello in cui tutti si muovono...). Ho manipolato le temporalità del discorso di Deleuze, ma solo in minima parte, il discorso ha già una certa temporalità molto particolare. Ho basato i miei movimenti sull’insistenza e sulla messa a terra del corpo che spinge e preme gli spazi e va interamente in direzione del suolo.”

Un’esperienza che supera e va oltre la danza è l’altra performance, "Olympia", un lavoro che ha l’aspetto di una testimonianza che grida e denuncia la mercenaria relazione tra arte e denaro. Un corpo nudo che esplora attraverso la pittura il territorio filosofico di Jean Dubuffet.

In quel periodo stavo leggendo Asphyxiating Culture di Jean Dubuffet, e mi sembrava assolutamente giusto leggere alcune parti di questo libro per l'occasione a chi fosse presente al Teatro Maria Matos. Ma leggerlo come? E non sarà un po’ pretenzioso, andare lì e dire che sono colei che sa che cosa è la vera cultura, o la cultura migliore? Forse dovrei essere nuda... devo leggere Dubuffet nuda. Incollata a terra di fronte a un microfono? No, è impossibile ... per far cosa poi? Nuda...?
Questa nudità mi fece pensare all’ Olympia di Manet, che avevo appena visto al Musée d'Orsay a Parigi, dove vivevo all'epoca. E se fosse Olympia a leggere Dubuffet? Oh, no! Terribile! Ognuno mi accuserà di dissacrare il dipinto... .
Ho detto André Lepecki che volevo leggere Dubuffet nuda, ma non sapevo come farlo senza semplicemente leggere Dubuffet nuda. Non ho nemmeno parlato a lui del dipinto. Potete credere a cosa mi disse dopo? Oh, Vera, ricordi l’Olympia di Manet [che avevamo visto insieme]? Penso che dovresti lavorare con lei. Ed è questo ciò che ho fatto”.

Coreografa, attrice performer e ballerina, Vera Mantero ha studiato danza classica con Anna Mascolo e lavorato a Lisbona nel Balletto Gulbenkian dal 1984 al 1989.
Ha studiato a New York e a Parigi le tecniche di danza contemporanea, della voce e del teatro.
Tra le sue collaborazioni ricordiamo in Francia quella con Catherine Diverrès.
Dal 1991 le sue coreografie, da lei create già dal 1987, fanno il giro del mondo.


Irina Pinelli

PETRA JEAN PHILLIPSON: voce noir in abiti vittoriani


La donna ha una voce. E non nasce dalla costola di un uomo. Non ne è succube.
Petra Jean Phillipson possiede una sua idea di femminismo, ispirato alla figura di Lilith che si contrappone a quella di Eva.
Pelle chiarissima e occhi azzurri. Vestita come una dama elisabettiana, con un merletto al collo e i capelli raccolti. Sembra provenire da una fiaba.
Nata nel 1973 ad Ashford, nel Kent, dopo la collaborazione con David Holmes nel progetto Free Association, una session di canto in cui accompagnava Marianne Faithful e Martina Topley-Brid ed un lavoro cinematografico come “Analyse That”, Petra Jean Phillipson torna finalmente al suo elemento naturale. La sua musica. Citando influenze che vanno da William Blake a Elizabeth I, da Josh T. Pearson a My Brightest Diamond, da Syd Barrett a Siouxsie Sioux, la Phillipson realizza così il secondo capitolo della trilogia “Notes On” a cinque anni di distanza dal primo atto. Il nuovo lavoro, in collaborazione con Matthew N Hopwood, compagno di vita e di musica, è doppio e si intitola “Notes on: Death” che, diviso in due parti, ‘black’ e ‘white’ in cui ognuna bilancia l’altra, trasuda rabbia e spasmo, inquietudine e perdizione, distorsione e aggressione.
L'umore dei suoi testi è nero, infernale come la voce di Robert Johnson e le pagine di Edgar Allan Poe: tormento, dolore e passione. Una stasi straziante e magnifica, raggiunta in tempi recenti solo da Antony & The Johnsons.
La Phillipson dichiara di volere prendere le distanze dalla sessualizzazione esasperata delle artiste, tipica dell’odierna industria discografica. Canzoni spettrali e a tratti minacciose, basate sull’alternanza tra minimalismo acustico ed esplosioni. Un’elettricità sferzante e scheletrica. Come lei stessa dichiara, le registrazioni si sono svolte “basandosi sull’elettricità della luna piena”, un’elettricità notturna ed animalesca.

C’è una selva da attraversare.
Ci sono tante lune da venerare.
Una miriade di ombre da cui sfuggire.
Quiete solo apparente.
Sostanza, non solo forma.
Meraviglioso gioco di rimandi fra luci e ombre.

Un vero e proprio viaggio dantesco che porta la cantante alla rinascita. I momenti di calma pastorale sprigionano una qualche insofferenza interiore. Un lavoro ambizioso e perfettamente riuscito. Il ritratto di una personalità che si rivela tremendamente ricca di spessore e talento.
 Marianna Saggese

“Un’assurda me stessa”: FEDERICA SANTORO è la Signora Doumont


E’ la storia della Signora Doumont, abbandonata dal Signore di O, del suo svenimento e decadenza e della sua rivale, la Signora di A, la storia che Federica Santoro presenta in “Minore”.

La signora Doumont - come scrive l’autrice ed interprete - è un personaggio immaginario di altri tempi ma aggiunge anche dei miei tempi, quelli del dentro sottosopra, che ricostruisce l’antico con un occhio distorto da mio essere irrimediabilmente un’assurda me stessa, un po’ per gioco un po’ per necessità.
L’abbandono e un sequestro che la signora D. ha subito per via di debiti e di inganni, sono i motori dell’azione, chiusa tra quattro mura claustrofobiche e irriverenti.
Si eccede in parole, parolette, pensierucoli, sussurri, digressioni snervanti e insolenti che decompongono il ritratto della signora D. e quello della sua nemica, di lei, di altri, di mobili, e oggetti. Povera Doumont!
L’oggetto di indagine della signora Doumont sono le sensazioni che accarezzano i limiti del suo stesso esistere, si rappresentano in apparenza come posticce e teatrali nell’azione, nelle parole, nel tempo, nel suono, in un continuum, in un processo che fa di lei l’esperimento stesso della sua esistenza, alla ricerca di un metodo conoscitivo sensibile di tutta la sua infinita - a volte ridicola, a volte crudele - complessità da eroina minore.

Frequenta l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma verso la fine degli anni’80. Lavora subito come attrice in molti spettacoli diretti da Giorgio Barberio Corsetti tra i quali più si ricordano: Descrizione di una battaglia, America, Il Processo, tutti da Kafka; La nascita della tragedia, Paradiso da Milton. Collabora negli anni con Societas Raffaello Sanzio (Giulio Cesare di Shakespeare), Alfonso Santagata, Gigi Dall’Aglio, Mario Martone. Cura la regia di suoi spettacoli e performance e collabora con vari artisti in ambito teatrale e musicale, tra i quali con Filippo Timi con il quale condivide alcune esperienze registiche (La Medea, testo di Daria Panettieri).
Collabora con la compagnia di danza Travirovesce ed è cofondatrice, ideatrice e coregista della Locandaccia. Nel 2004 fino al 2007 crea con la musicista e performer Daniela Cattivelli Cane. Mettono in scena Psicosi delle 4 e 48  di S. Kane e Deadwood.
E’ una delle creatrici del collettivo Arturo composto da musicisti, attori, danzatori e video artisti romani. Nel 2011/12 è attrice ne L’Origine del Mondo, scritto e diretto da Lucia Calamaro candidato a tre premi Ubu 2011 mentre nel 2010/11 realizza L’ingegneria del consenso (dall’Otello di Shakespeare) che la vede in scena insieme al violoncellista Luca Tilli. Come regista e interprete si dedica alla messa in scena di testi di autori contemporanei o rivisitazione di classici. Nel 2007 cura la regia di Alla meta di Thomas Bernhard di cui è anche interprete. Nel 2008 è regista e una delle interpreti Drammi di Principesse La morte e la fanciulla I e  III di Elfriede Jelinek.



Marianna Saggese

martedì 4 dicembre 2012

“The invisible line between sayable and unsayable…”: BARBARA DE DOMINICIS e AUDE FRANÇOIS


Un dialogo tra video e voci presenti in scena. Perché Barbara De Dominicis, oltre a fare uso della voce, ama raccogliere suoni, manipolarli e inventare trame sonore. Tra i suoi progetti vanno ricordati “Poe-Si”, “Cabaret Noir” e “Kuul_MA”; tra i suoi lavori sonori “Whimsical Cartography”, “Re_di_Sound” e “A Tale of Two Cities”. Attualmente sta lavorando a “Quasi.Memory”, un'installazione sonora che fa uso di memorie private ritrovate.
Alla De Dominicis si unisce l’immaginario onirico di Aude François in Self Made Worlds”. L’artista multidisciplinare francese esplora varie forme d’interazione fra corpo, immagini in movimento, narrazioni decostruttive e una mitologia personale. Le sue performance articolano protocolli di scenografie dal vivo che includono il video come medium ambientale, spesso utilizzando immagini catturate in tempo reale, considerando la scatola nera come un possibile spazio del sogno, in cui i suoni e le immagini comunicano in un percorso poetico e narrativo.
Un viaggio onirico: questo rappresentano i brani utilizzati in “Self Made Worlds”, appartenenti alla produzione della scrittrice statunitense Anaïs Nin, in bilico tra prosa e poesia, tra sogno e veglia. Siamo accompagnati per mano in un non luogo che rappresenta ogni luogo possibile; un indugio nel non essere, una caduta nel nulla come solo un sogno può essere, in un tempo indefinibile, non in quanto fuori dal tempo ma in ogni tempo possibile.
Le parole diventano involucro, contenitore d’immagini e pretesto per un’indagine sonora il cui senso più autentico consiste nella ricerca del tessuto sonoro e vocalico più vicino all’emozione del momento. Decontestualizzata, la parola rappresenta un nucleo a se stante: privata del significato originario, snaturata, destrutturata, si presta a nuove forme e utilizzazioni, tutto attraverso la musica. Una parola, dunque, non più immobile, ma in perenne trasformazione, una struttura in divenire: un simbolo delle infinite possibilità dell’essere.

BARBARA DE DOMINICIS [voice + live electronics]

AUDE FRANCOIS [visual explorations]
                                                                Laura Panizza

Pentesilea, follia amorosa e parola che esce dai buchi della carne: SANDRA SONCINI nella nuova creazione di Lenz Rifrazioni


“L’attore è femmina”, scrive Valère Novarina. Solo il corpo femminile può crescere una parola che al suo apparire abbia i colori della nascita. Solo gli occhi di una donna possono portare nello sguardo la furia di Pentesilea, figura della mitologia greca e regina delle Amazzoni. Al maschio non resta che fingere, nella verità del corpo in scena, di non essere un appestato, di essere un soldato, di essere un eroe. Specchio delle condizioni psichiche disturbate del suo autore: è questa la Pentesilea del dramma di Heinrich von Kleist.
Attrice in molte delle messinscene di Lenz Rifrazioni, Sandra Soncini va alla ricerca del respiro che precipiti la parola nel pieno di fronte a sé; presenza sospesa nel vuoto, che la parola stessa creerà. Parola nata nel ventre, risalita ancora muta alle corde vocali, nemica al cervello, parola che cerca un’uscita attraverso i buchi della carne.
Rapporto tra i sessi e identificazione di genere: questi i temi dominanti. Pentesilea, si fa infatti condurre alla follia dalla passione amorosa, uccidendo l’amante in un duello personale, e profanandone il cadavere smembrandolo a morsi.
L’apparizione e la rivelazione dell’essere, degli enigmi, dell’essenza del tutto. La coscienza tesa all’estremo. Tutto ha perso la sua presenza sull’uomo.

Formatasi come danzatrice, Sandra Soncini ha collaborato come attrice con Lenz Rifrazioni in “La morte di Empedocle” e “Antigone” di Hölderlin, nei progetti dedicati a Goethe, Kleist, Shakespeare, Calderón de la Barca e ai Fratelli Grimm; nel 2008 debutta con la performance “Io” tratta dalle Metamorfosi di Ovidio. Dal 2009 collabora con l’Accademia degli Artefatti.
                                                               Marianna Saggese

Eliminare il superfluo per un’indagine trasversale: VIA NEGATIVA


“Per me, creatore di teatro, le parole non sono importanti; per me la sola cosa che conti è ciò che si può ricavare da queste parole (…).
Il teatro è un atto generato dalle reazioni e dagli impulsi umani, dal contatto che si stabilisce tra le persone."
Jerzy Grotowski

Eliminati gli ostacoli. Eliminato il superfluo. Una performer spogliata: nessun trucco, nessun costume, nessuna divisione tra attore e spettatore.
Rimane l’essenziale. Mente, corpo, comunione attore-spettatore. Questo è “Spotlight on me” di Via Negativa.
Un progetto, dal nome di ispirazione grotowskiana, che indaga ciò che si innesta al momento e nello spazio teatrale, tra performer e pubblico: un flusso complesso di punti di vista, aspettative, giudizi, conclusioni, riconoscimenti. Non importa quale sia il soggetto o la storia dello spettacolo, ciò che importa è cercare sempre “l'arte viva che esiste a causa di domande e non a causa di risposte”.
Un'indagine trasversale, quella di Via Negativa, che si esprime attraverso teatro, lettura, danza, pratiche del corpo radicali, progetti galleria. Una compagnia aperta, dinamica, senza numero fisso di membri. Un collettivo dove ognuno combatte individualmente, con le sue ragioni, il suo corpo, il suo coraggio, la sua immaginazione, le sue competenze, la sua energia.
L'attrice slovena Barbara Kukovec contempla, in “Spothlight on me” (creato con B. Jablanovec), il paradosso della presenza dal vivo di fronte allo spettatore, esplorando con gli unici mezzi a sua disposizione (corpo, segno teatrale e parola) la possibilità di eliminare il confine tra il soggetto della performance e la performance del soggetto. Barbara diventa la vittima della sua stessa vivacità; ciò che è in grado di creare è solo un ricordo di ciò che è stato creato.
Richard Wagner, Le Valchirie. Più forte, più forte, più forte. E – Boom! Il teatro esplode. I muri collassano, il tetto cade a terra. Ma tu ed io sopravviviamo. E adesso – esplosioni in cerchi concentrici viaggiano ancora più lontano: Zagabria, Venezia, Vienna, Roma, Berlino, Madrid, Londra e Mosca in simultanea – boom! Siamo rimasti solo tu, io e la memoria di tutto quello che se ne è andato. L’ultima memoria, che Barbara vuole cancellare dalla sua mente, è quella di una performance “Another Bloody Mary” dell’artista spagnola La Ribot. Questa memoria è la penultima vittima in questa storia, incentrata sul cancellare il confine fra il soggetto della performance ed il performare un soggetto. L’ultima vittima in questa storia è la perfomer che la performa.
Già danzatrice e attrice Barbara Kukovec si è recentemente interessata anche di media visivi, in particolare di fotografia. Si è laureata all’Accademia Teatrale di Lubiana, e nel 2006 ha ottenuto un master in performance presso il Goldsmith College di Londra, città dove vive e lavora. Il suo approccio integrato a qualsiasi tema trattato trasforma le sue performance di eventi unici fortemente espressivi. L’abilità nel toccare nuove vette, individuali e collettive, caratterizza il lavoro di Barbara nella serie “Starting Point” dei Via Negativa: “Anger”, “More”, “Would Would Not”, “Viva Verdi”, e “Four Deaths”. In queste performance dimostra una presenza fisica di incredibile impatto, che cancella il confine fra il soggetto della performance ed il performare un soggetto.
                                                                             Irina Pinelli